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Angelo Landi

La luce primordiale intrisa d'interiorità

Angelo Landi (Salò 1879-1944). Quando nella seconda metà degli anni Venti, dopo i più brevi soggiorni del decennio precedente, Angelo Landi decide di trascorrere le vacanze estive a San Benedetto del Tronto, su probabile indicazione di Armando Marchegiani da lui incontrato a Roma, la città è nel pieno fulgore di una bellezza ancora incontaminata, irrorata da una luce pura. Landi sente il richiamo della temperie pittorica della modernità, ma non si lascia ammaliare dalle sirene di una certa critica, è più forte il richiamo dell’armonia incorrotta dei luoghi, del fascino della figura umana, della sua sacralità come per Chatelain e De Carolis. La realtà si fa allegoria di se stessa, nella costante ricerca di un’essenza di verità che la luce pone in evidenza senza l’ausilio di stacchi netti delle ombre, essa vive in quanto tale, perché è connaturata nel colore in modo primordiale. Dal chiarismo lombardo, che contraddistingue le prime opere, approda ad un colorismo di matrice veneta, ma le cromie vibrano come nella pittura d’impressione. Nelle due tele dipinte a San Benedetto, e direi per San Benedetto, “Tempesta o Attesa”, 1913-18, e “Bonaccia o Attesa e reti tese ad asciugare”, 1913-18, è sempre la luce protagonista, fredda e avvolgente nella prima, calda e riposante nella seconda. Folgorato dal sublime, come i pittori romantici che dal Nord Europa scendevano in Italia, magistralmente coniuga la visione reale e la sua interiorità. Capolavoro assoluto “Il sogno o visione di San Domenico”, affreschi, 509 mq, sulla doppia cupola del Santuario-Basilica di Pompei, con 327 figure la cui altezza è, in media, di 3 metri. La sorprendente cadenza coloristica, l’ingegnoso magistero, con il quale sono stati giocati i “piani e i volumi”, hanno consentito la realizzazione di un eccellente ed eccezionale “architettura figurativa” che non ha riscontri nella storia dell’arte moderna, e ben pochi in quella del “barocco e del rinascimento”. “Ogni figura un’anima, un carattere, un’idea, un simbolo”, una gestualità, l’insieme una melodia pittorica che Dante non esiterebbe ad apprezzare. In questo capolavoro, che ha consegnato alla storia dell’arte, appare attratto dal Correggio di Parma e ammira Giovanni Lanfranco e il Tiepolo, ma non ne rimane suggestionato, dipinge con il suo stile e seguendo le sue intuizioni.

 

 
 

 
 

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